Intervento dell’Avv. Maria Pia Lessi all’iniziativa ” Dalle donne il coraggio di cambiare, il coraggio di affermare la legalita’ del 07.03.2012 c\o Provincia di Livorno
Un contesto e un momento difficile per parlare di donne artefici di giustizia, a partire dalla mia esperienza di legale che si occupa di diritto di famiglia e del lavoro..
Eppure legalita’, rispetto di regole condivise della convivenza prima fra tutte la Costituzione del 1948 e la Carta dei Diritti d’Europa, che dal 2009 fa parte del nostro ordinamento, e’ prerequisito per ogni scambio di pensieri e esperienze.
Nella nostra Toscana Federico Gelli ci ricorda che 54 sono le aree confiscate, i settori dell’usura degli stupefacenti sono in mano alla mafia che fa la sua parte anche negli appalti.
E’ un contesto da tener presente per chi pone nuove regole, come se si vivesse in un’area di mercato libero: in Italia l’economia e’ “ dopata” dal riciclaggio di denaro sporco, le industrie che sostengono di dover delocalizzare per esigenze di mercato hanno fruito di sussidi statali ingentissimi….
Voglio ricordare in premessa che il Presidente di Anci Toscana e nostro Sindaco Alessandro Cosimi ha pubblicamente parlato di insostenibilita’ per i Comuni di una manovra che tenendo bloccati i fondi presenti nelle casse per il patto di stabilita’ rischia di costringere gli enti locali a tagliare i servizi essenziali….
Se non ci fosse 13 del PIL indisponibile per le mafie queste difficolta’ sarebbero minori.
In questo contesto difficile, le donne artefici di giustizia.
Artefici significa soggetti che creano con sapienza e questa parola mi sembra molto appropriata per indicare la relazione delle donne con la giustizia.
A partire da Rita Atria, diciasettenne, che insieme alla cognata Piera Aiello denuncia gli assassini del fratello ucciso, come il padre in precedenza, per mano mafiosa, e che, in seguito alla morte dell’unico punto di riferimento rimastogli vicino, il magistrato Paolo Borsellino, decise di lanciarsi dalla casa romana in cui viveva in qualita’ di testimone protetto.
Proprio in questi giorni e’ in scena in Sicilia “Grido di donna” che narra le storie di tre donne ribelli, vicine e lontane al tempo stesso, interpretate sullo stesso palco per evidenziarne la comune sete di giustizia. Un unico grido per lo stesso diverso dolore.
Dall’Antigone di Henry Bauchau alle vite di Felicia Impastato, madre di Giuseppe Impastato, ucciso dalla mafia, e di Rita Atria.
Donne coraggiose, ribelli al loro status, unite tra loro da una sete di giustizia morale, etica.
Solidali per un inno alla vita, la vita di un fratello, di un figlio, di un essere umano, perché, come sostiene Antigone: “C’è una legge inscritta nel corpo delle donne: tutti i corpi, quelli dei vivi e quelli dei morti, sono nati un giorno da una donna, portati da una donna, curati e amati da lei… Uccidetemi, arrestatemi, ma prima lasciatemi gridare”.
Queste tre donne possono solo esprimere con il loro grido l’indignazione e il dolore.
E’ a partire da questo “ qui e ora” che propongo con 3 parole i tratti comuni di una pratica femminile di giustizia.
La prima parola di questa pratica femminile e’ RESPONSABILITA’, che piu’ che dovere rimanda a piacere di prendersi cura, un po’ di piu’ di affettivita’ e accoglienza sulla norma che impone doveri.
Quando nel diritto di famiglia parliamo di responsabilita’ genitoriale e non di potesta’, scegliamo di indirizzare la coppia in crisi coniugale a mantenere forti i legami con i figli in termini di tempo e di impegno economico per la loro crescita.
La piu’ antica delle donne artefici di giustizia e’ la madre dell’episodio biblico di Salomone.
Quando al re sapiente fu portato un bambino conteso tra 2 donne, questi propose di tagliarlo in 2; una delle due donne afferma “ tagliate” l’altra “date” e questa fu riconosciuta madre,prima di tante madri artefici di giustizia ho incontrato in oltre 30 anni di attivita’ di legale, donne che hanno nutrito, e non solo materialmente, i figli con amore, superando la giustizia cieca, fredda e insensibile con la scelta della vita, coltivando relazioni anche in condizioni
di assoluta aridita’.
Quando parliamo di responsabilita’ imprenditoriale si richiamano i principi della nostra Carta Costituzionale e della Carta d’Europa sul fatto che il lavoro e’ momento di conseguimento di reddito e di espressione della personalita’, per cui i licenziamenti possono avvenire solo per giusta causa o giustificato motivo.
E responsabilita’ verso se stesse e verso chi amiamo esprimono le donne artefici di giustizia.
La seconda parola e’ CURA.
Se ripenso alle mie esperienze nell’ambito professionale di avvocata e nelle istituzioni ma anche nella mia vita privata, mi accorgo che quando ho messo la cura al centro delle relazioni tra persone e nelle pratiche si e’ operato un cambiamento di senso perche’ il paradigma della cura ha prodotto qualita’ nei rapporti e nelle relazioni .
Penso ai beni comuni, oggetto costante della “ cura” al tempo della difesa civica, l’aria, l’acqua, la terra ,la citta’,chi la abita,ma anche il lavoro, gli affetti, le relazioni.
La teologa tedesca Ina Praetorius (Penelope a Davos Quaderni di Via Dogana 2011)si pone l’interrogativo di cosa avviene se provo a considerare il mondo intero, anziche’ un mercato, un ambiente domestico, un luogo cioe’ dove si fanno cose che contribuiscono visibilmente e direttamente a far star bene le persone, a cominciare da se stesse e propone di pensare il mondo a partire dalle esperienze reali di chi lo abita, un ambiente domestico come ambito
in cui si vive e si lavora, dove la dipendenza legli unei dallegli altrei non e’ debolezza ma normalita’ perche’ tutti noi esseri umani siamo per alcune fasi attivi o stanchi, capaci di lavorare o disabili, pieni di energia o depressi.
In questa prospettiva , “ un agire volto al nutrimento dell’umana convivenza” e’ stata per me la Difesa Civica, quando non ci si limitava alla relazione tra cittadinanza e ente locale, alla tecnica o alla corretta gestione, ma si chiedeva da parte di tutti presa di conoscenza , di parola, di responsabilita.
Nell’ambito professionale, anche di fronte a violazioni di diritti e lesioni di beni fondamentali, secondo me e’ cura scegliere di far leva sulle risorse dei soggetti coinvolti, mai relegati nei ruoli di vittima e nelle relazioni interpersonali sottrarsi alla misura del potere e del denaro fine a se stesso, per riconoscere la priorita’ del benessere comune.
Mi piace pensare e accorgermi con sguardo aperto e senza pregiudizi che, anche in periodi difficili e pesanti come quello che attraversiamo,siamo in tante a coltivare questo desiderio, questo pensiero e questa pratica, a farla vivere e dare frutti, in tante e diverse forme, luoghi e modi.
Penso come figure di riferimento alle madri di Plaza de Mayo, che hanno cercato i nipoti figli dei figli e delle figlie rapite dal regime in Argentina.
Racconta Hebe de Bonafini: “Abbiamo iniziato a farci madri di tutti i desaparecidos.
Le donne non tengono conto della forza che c’èè nella maternità, eppure la madre è la sola persona che può essere due, tre, quattro, a seconda di quanti figli mette al mondo”.
“Rifiutammo le esumazioni perché dichiarare morti i nostri figli senza che nessuno ci dicesse chi aveva eseguito i sequestri e ordinato l’uccisione, sarebbe stato come assassinarli una seconda volta – spiega Hebe -, non avremmo permesso a nessuno di dare un prezzo alla vita dei nostri figli.
Noi abbiamo imparato questo dai nostri figli: la vita vale solo quando la si mette al servizio di altri, quando la si dà con generosità, senza aspettarsi niente in cambio. Sentendo che siamo per sempre incinta dei nostri figli, diamo loro vita permanentemente.
Noi siamo madri di figli rivoluzionari, e continuiamo la loro lotta.”
“Indipendentemente dalle cose estreme, dalla morte – dice Muraro – una donna è due, è tre:
è sua madre, è i suoi figli, e soprattutto è le sue figlie. Hebe ha dato elementi di linguaggio desunti dalla maternità, soprattutto quando ha detto che ‘possiamo allattare in tante maniere’.
Altra indicazione è il gesto di una madre che, quando fa per suo figlio, fa anche per sé. Non puro altruismo, ma un fare per sé che è anche fare per l’altro.”
Ci si chiede se questo sentire dentro di sé i propri figli, questo farsi madri di tutti i desaparecidos, non implichi una sorta di agire politico vicino alla cura materna.
“Le nostre – sorride Hebe – non sono riunioni filosofiche. Mischiamo tutto. Cuciniamo, vagliamo un documento, ci informiamo sulla salute dei nipoti. Tutto il mondo ci studia: vuole sapere cosa abbiamo dentro. La risposta sono 24 anni di lotta in cui non abbiamo mai mancato un solo giovedì in piazza, e ogni giovedì è l’unico e il migliore. Marciamo mezz’ora e poi facciamo la nostra denuncia.” e ancora “Credo che le parole d’ordine delle Madres siano di per sé un elemento poetico e creativo. ‘Ricomparsa in vita’. ‘Non un passo indietro’.
‘L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona’. ‘Siamo incinte per sempre dei nostri figli’. ‘Il governo paga il debito estero con delle vite’. E’ tutta poesia politica.”
Si giunge quindi alla terza espressione che e’ CONFLITTO CREATIVO.
Se e’ vero che .” il conflitto che deve essere riconosciuto e agito senza sconfitta e umiliazione di nessuno…”, secondo me, il paradigma della cura consente il confllitto proprio perche’ e’ un modo non violento e ,secondo la mia esperienza , in molti casi, efficace di soluzione. Provo a spiegarmi: posso esprimere il mio punto di vista,anche in contrasto con l’altra/o, solo se ho fiducia nella relazione e so che la pluralita’ di posizioni arricchisce la discussione e consente un livello piu’ pieno di soddisfazione condivisa. Questa e’ la scommessa del cd. ” diritto collaborativo”, che richiede una capacita’ di mettersi in gioco su basi comuni di ricerca della migliore possibilita’ di soluzione, con forte connessione ai dati di realta’. In questo senso, cura e conflitto sono compatibili perche’ la prima cura e’ per se’, per la nostra autenticita’ che si puo’ alimentare solo nel nominare le cose come ci appaiono,
aperte al contatto/confronto/conflitto con l’altra/o . E’ una pratica che richiede forza , e di forza le donne tanta ne hanno.
Aggiungo alcune parole di Irene Strazzeri, dall’ultimo Via Dogana ,non a caso intitolato” farsi giustizia” che condivido in pieno “…il riferimento alla politica delle donne diventa necessario ,man mano che la politica seconda (istituzionale /neutra maschile ndr) impara a riconoscersi come tale . Seconda alla coesistenza, seconda alla sopravvvivenza (mai come ora e qui!!!!ndr) Se il conflitto si presenta come necessita’ e se si e’ capaci di coglierlo come tale, il desiderio non andra’ verso il riconoscimento della nostra soggettivita’ nelle forme di un assoggettamento a una giustizia estranea alle nostre pratiche.
…..Vorrei dirigere le mie pratiche di giustizia al capovolgimento dei rapporti di forza in libere relazioni, con l’indicazione dell’empatia e del buon senso, simbolicamente, perche’ il riconoscimento tra donne si offre, non si conquista con la lotta. ..”
Penso alle donne del movimento NO TAV di cui parla un articolo de Il Sole 24 Ore che titola “ Ecco chi sono le donne del movimento No-Tav. Il loro slogan: concretezza” e ci riferisce che : “ “ Lo slogan, per le mamme abituate ogni giorno a risolvere i problemi nella gestione della casa, è “concretezza”. «Chi di noi ha figli, ha una motivazione in più per lottare –– racconta Monica Montabone, un bimbo di 3 anni, psicologa e da sempre fra chi dice no -. Costruiamo un’opera costosissima, 20 miliardi sono una cifra gigantesca, quando poi mancano le risorse per le piccole priorità del quotidiano. Offrire una scuola sicura e adeguata, e non edifici che cadono a pezzi, offrire i servizi, che mancano, dare un futuro ai nostri figli perché possano essere cittadini di serie A.
Qualche anno fa una mamma, in auto, con un figlio a bordo, è stata investita attraversando in Valle un passaggio a livello, perché la sbarra non funzionava. Non abbiamo bisogno di economisti che, con grandi proclami, ci spieghino i nostri bisogni. Le necessità reali le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni»». Le fa eco, ancora, la Dosio: ««La nostra con la sensibilità pratica tipica delle donne, è la lotta per migliorare la vita del quotidiano, per i servizi pubblici, per garantire una ferrovia per i pendolari, tanti, che vivono nelle valli. Di fronte a un progetto come la Torino-Lione, ci siamo immediatamente rese conto di quale era il problema. Abbiamo capito che questa lotta metteva in discussione la salute dei nostri figli e nipoti. Vogliamo tutelare la terra e la natura che amiamo».
Penso alle 239 lavoratrici di OMSA di Faenza che il 14 marzo perderanno il posto di lavoro e che stanno mettendo in scena il loro dramma in teatro con un documentario “ Omsa che gaffe” accanto ai loro percorsi sindacali.
Termino con l’Antigone che Maria Zambrano rivisita dalla tragedia di Sofocle, con le parole di Wanda Tommasi: “ Secondo Zambrano, Antigone non si sarebbe suicidata nella tomba, ma avrebbe avuto a disposizione proprio lì – nella caverna, nell’’utero materno -, un altro tempo, necessario per dipanare i nodi aggrovigliati della sua stirpe e per estrarre un senso dalle terribili vicende che aveva vissuto. Quando Antigone è rinchiusa nella tomba, tutto è
già accaduto. Antigone, figlia di Edipo e di Giocasta, di un matrimonio incestuoso fra madre e figlio, ha visto i suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, morire l’’uno per mano dell’’altro in una guerra fratricida. Eteocle, assolutista, era schierato dalla parte del tiranno Creonte, mentre Polinice, utopista e rivoluzionario, aveva combattuto contro Creonte. Per questo il tiranno Creonte aveva decretato che a quest’’ultimo fossero negati gli onori della sepoltura.
Antigone, trasgredendo il divieto di Creonte, aveva seppellito il cadavere di Polinice e,, ne aveva lavato pietosamente il sangue raggrumato. Per questo, Creonte l’’aveva condannata a essere rinchiusa in una caverna al di fuori della città di Tebe: qui, secondo Sofocle ma non secondo Zambrano, Antigone si sarebbe suicidata. La trasgressione dell’’editto di Creonte e la condanna di quest’’ultimo del gesto di Antigone avevano comportato anche il fallimento
delle nozze dell’’eroina greca con Emone, figlio di Creonte, a cui Antigone era stata promessa in sposa. Queste sono le vicende a partire dalle quali si dipana La tomba di Antigone di Maria Zambrano. In Zambrano, Antigone è l’emblema di una sapienza femminile che, maturata nella sofferenza per l’eredità di vincoli familiari pesantissimi e insolubili, tuttavia ha la capacità nella tomba di dipanare i fili aggrovigliati della propria nascita fino a portarli alla luce della coscienza e a trasmetterne il senso a coloro che le stanno intorno, in primo luogo i suoi familiari.
E’ chiaramente leggibile anche, nella presa di distanza di Antigone-Zambrano dalla lotta fratricida e dal conflitto maschile per il potere, il segno della propria differenza femminile, ispirata da un’’altra logica, guidata dall’’amore e dalla pietà. Anche se Antigone promette, alla fine del colloquio con Polinice, che andrà a raggiungerlo ““in quella città che tu dici, fratello””, tuttavia non si tratta della stessa città. Quella di Polinice è la città dell’’utopia rivoluzionaria, quella di Antigone-Zambrano è una “patria eterna che, in quanto è più perfetta di qualunque utopia, trascende la storia”. Si tratta di una terra promessa oltre la storia, la quale però al tempo stesso non nega la vita di questo mondo, ma promette anzi che ogni momento di questa esistenza terrena sia salvato e redento, riscattato nella luce.”
Con responsabilita’, cura, concretezza e gestione creativa del conflitto possiamo sentirci contente di essere artefici di giustizia, nella genealogia delle donne che ci hanno preceduto e con apertura di strade a quante ci seguiranno.