L’ Avv. Annamaria Del Chicca nel 2016 con la tesi su “La conoscenza come bene comune” e il Dott. Tommaso Franchi nel 2019 con la tesi su ” La non proprietà evoluzione del paradigma e prospettive di tutela” hanno scelto di laurearsi in ” Diritto dei beni comuni” , una materia quanto mai attuale in questo momento in cui la pandemia rende più evidenti le disuguaglianze e urgente il bisogno di giustizia sostanziale.
La “non proprietà” è un concetto relativamente nuovo all’interno del diritto civile moderno che si è sviluppato all’interno della branca – altrettanto recente – del diritto dei beni comuni . La sua ratio persegue lo scopo di formulare teorie giuridiche differenti al fine di evitare tutte quelle sperequazioni ormai ampiamente diffuse all’interno di una società moderna completamente fondata sul diritto di proprietà. E’ quindi evidente che per compiere tali riflessioni sia necessario mettere in dubbio l’istituto a cui la terminologia trattata fa immediato riferimento. Ma risulta altrettanto evidente come parlare di non proprietà , complice la sua “giovane età” precedentemente menzionata, presenti sfumature giuridiche e lessicali che tendono spesso a provocare incertezza nell’individuazione del suo reale significato .
Al fine di una maggiore chiarezza, l’espressione “non proprietà” tende a indicare in realtà due concetti differenti; da un lato, un diretto riferimento a dei soggetti, i cosìddetti “non proprietari”, poco abbienti e senza tutele a causa della parziale o totale mancanza di titolarità di determinati beni. Per altro verso, ci si può riferire alla “non proprietà” come a un modello di società moderna totalmente differente, non più radicata e costruita totalmente intorno all’istituto proprietario. Il fine ultimo di tale riflessione è quello di individuare ,con lo scopo di superarle, le criticità che, nel corso dei secoli, hanno portato l’istituto proprietario a rendersi responsabile e complice della sperequazioni e delle disuguaglianze generate nei confronti dei soggetti trattati, oltre che cercare di ipotizzare delle possibili soluzioni ed eventualmente dei nuovi modelli societari che possano anche prescindere dalla proprietà.
Come già premesso, per inquadrare al meglio la tematica è evidente la necessità di una profonda critica all’istituto proprietario, riflessione tra l’altro già configuratasi in periodi storici diversi nonostante la sottolineata giovinezza dell’argomento trattato. .Il primo esempio in tal senso è una parziale critica che è stata portata avanti fin dai tempi di Platone, che nella sua visione di stato ideale ipotizzava una realtà in cui i governanti avrebbero dovuto rinunciare alla proprietà a causa della tendenza dell’istituto a sviluppare interessi personali ed egoistici. La proprietà era quindi vista come strumento di distrazione e di fatto un ostacolo al perseguimento del bene comune.
Ma ancor più di rilievo furono invece le dottrine portate avanti da San Francesco d’Assisi,il primo a sperimentare un diverso modello societario basato sulla rinuncia della titolarità di qualunque proprietà privata per chiunque volesse entrare a far parte di una vera e propria realtà alternativa, quale l’Ordine Francescano.In un periodo storico in cui la Chiesa necessitava di una riforma a causa del malcostume diffuso tra molti dei suoi esponenti, la Regula francescana del 1221 mise in atto una proposta di riforma religiosa che indirettamente evidenziò le prime criticità dell’istituto proprietario. Francesco dimostrava infatti disprezzo verso la proprietà, non tanto come istituto giuridico in quanto tale ma piuttosto sminuendone il valore acquisito in quanto portatrice di discriminazioni e disuguaglianze tra gli uomini. La riteneva infatti responsabile del contesto vizioso in cui la Chiesa si era inserita a causa della propensione – insita nell’istituto – a far ricercare agli individui la titolarità di un sempre maggior numero di beni per perseguire vantaggi personali. Per cercare un rimedio a questa deriva percepita, Francesco proponeva sia una rinuncia spirituale e materiale al diritto di proprietà, in modo che non potessero esserci strumenti di paragone e competizione tra gli individui, sia soprattutto un divieto assoluto di utilizzo del denaro,essendo questo lo strumento di accesso alla proprietà e a tutti gli scambi commerciali. In particolare,tale ultima questione si è rivelata essere di fondamentale importanza anche per gli sviluppi successivi della riflessione, in quanto Francesco per primo si rese conto di come il legame tra proprietà e valutazione economica dei beni oggetto di essa fosse la principale causa del ruolo discriminatorio avuto dall’istituto,non riuscendo a trovare nessun’altra soluzione se non vietare l’utilizzo del denaro per raggiungere il suo modello di società senza disuguaglianze. Si iniziava quindi a intravedere,tramite le varie riflessioni compiute, un primo modello societario idealmente impostato sulla “ non proprietà”.
A causa delle ripercussioni che la sua dottrina avrebbe potuto avere nei confronti dei vertici della Chiesa,in molti cercarono di sminuire le teorie francescane,in particolar modo alludendo al fatto che la rinuncia della proprietà , mantenendo il diritto di usus (così come predicava Francesco) sarebbe stata una rinuncia solamente formale e non sostanziale .D’altro canto, esponenti come Bonaventura da Bagnoregio e Papa Niccolò III, convinti della validità delle teorie francescane , si opponevano a questa visione, affermando che sarebbe stata possibile una rinuncia concreta al diritto di proprietà pur mantenendo l’usus sul bene, avendo la stessa proprietà un’importanza ed un valore indipendente.
Nonostante queste ideologie di stampo riformista,nei secoli successivi si è invece sviluppato un contesto in cui la proprietà acquisiva sempre più importanza nel tempo e dove i non proprietari perdevano quelle poche tutele che erano loro precedentemente garantite dalle tradizioni feudali,come ad esempio il sostentamento fornito dai signori per i quali lavoravano. Il progressivo rafforzamento dell’istituto andava a creare sempre più sperequazioni tra gli individui , arrivando in alcuni casi addirittura a estrometterli dalla vita politica e dall’accesso a diritti fondamentali. Ciò era dovuto al maggior rilievo che la proprietà aveva assunto nel corso dei secoli(almeno fino al XVIIII ), risultando di massima importanza per l’autodeterminazione del soggetto,per il conseguimento delle proprie libertà(in quanto istituto in grado di porre limiti di ingerenza verso altri individui,tra cui i sovrani stessi) e per il mantenimento dell’ordine nella società , essendo un mezzo qualificante del cittadino in grado di formare una gerarchia sociale in base alla titolarità dei beni detenuti. Era sempre più accentuata la tendenza a qualificare il soggetto proprietario con un’accezione positiva mentre il non proprietario con una negativa, motivo per cui nel corso dei secoli diventò consuetudine per vari ordinamenti subordinare l’attribuzione di diritti civili allo status di proprietario, come nel caso della cittadinanza -concessa in base alla capacità contributiva – o del diritto di albinaggio, in vigore in paesi come Francia e Italia.
Durante l’età contemporanea,con una proprietà ormai completamente dotata del carattere dell’assolutezza, le disuguaglianze trattate hanno raggiunto un livello talmente considerevole da far finalmente interrogare anche i legislatori sul valore dell’istituto, sulle condizioni dei non proprietari e su eventuali misure a tutela degli stessi. In particolar modo in Italia l’attenzione è stata posta sui criteri di determinazione delle indennità in caso di espropriazione, destinati ad assegnare un valore economico per gli immobili oggetto di proprietà e ponendosi quindi come idonei a quantificare, in base alle oscillazioni nel corso del tempo, il valore e l’importanza dati dallo Stato al diritto stesso. I vari criteri adottati hanno evidenziato le inclinazioni dell’ordinamento riguardo al ruolo da attribuire alla proprietà, variando tra forti affermazioni dell’istituto ( Legge 2359/1865 , art 39 : “..l’indennità dovuta all’espropriato consisterà nel giusto prezzo..”, Legge 2892/1885, art. 13 : “..sarà determinata dal valore venale del bene…” o tramite lo stesso art. 42 della Costituzione nella parte riferita al “salvo indennizzo”), e drastici ridimensionamenti della sua rilevanza, come nella Legge 10/1977“Bucalossi” ,art. 14 :“..l’indennità è commisurata al valore agricolo medio..” o nella Legge 359/1992 , art 5bis che istituiva, sostanzialmente,il criterio della semisomma.
Altro esempio di misure giuridiche di tutela verso i non proprietari, con conseguente tentativo di svilimento dell’istituto proprietario, lo si ritrova nella legislazione speciale del XX secolo relativa all’accesso ai terreni coltivabili e alle abitazioni, strumento volto a bilanciare le norme delle codificazioni vigenti con le sopravvenute esigenze di tutela sociale.
In materia di accesso dei non proprietari alle terre incolte, di particolare importanza sono state la Legge 1614 /1917 e il decreto n.89 /946, che contribuivano ad accentuare l’aspetto sanzionatorio della proprietà stabilendo degli elenchi per chi abbandonava queste terre e indennizzi meno satisfattivi per i titolari, per finire con la Legge 230/1950 (“legge Sila”) e la Legge 841/1950 (“legge stralcio”), che andavano a espropriare la proprietà di coloro che fossero titolari di beni per estensione superiore a certi limiti, interferendo sulla pienezza del dominio e sanzionando l’essere proprietario in quanto tale.
Infine, pronunce da parte dei T.A. R. ,della Corte Costituzionale o di organi sovranazionali , specialmente per quel che riguarda la materia relativa all’indennità di espropriazione, ci mostrano in realtà una recente decisa tendenza improntata sul recupero del soggetto proprietario e del valore della proprietà.
Concludendo,si può quindi notare una notevole difficoltà degli ordinamenti a pensare la società prescindendo dalla proprietà, ormai consolidatasi nel corso dei secoli e ben radicata nella civiltà. Sono quindi ancora poche le tutele verso coloro che subiscono la portata discriminatoria dell’istituto ( i cosiddetti non proprietari), palesandosi quindi una seria difficoltà nell’ipotizzare nuovi strumenti, non solo di carattere eccezionale, a favore degli stessi. Tra le varie ipotesi si può annoverare quella di un intervento diretto dello Stato, tramite una riformulazione legislativa del diritto di proprietà che tenga conto del soggetto più debole e che possa configurare l’altrui esclusione solo in caso di un effettivo usus, all’occorrenza, da parte del proprietario. Oppure separando, come accennato in precedenza, la fruibilità di un bene da una valutazione in denaro, facendo sì che possa essere lo Stato a garantirne l’accesso senza un ritorno economico. Queste soluzioni appaiono però ancora utopistiche,cosi come lo sarebbe sminuire il ruolo della proprietà attraverso una svalutazione dell’individualismo di cui è espressione, processo reso complicato sia dalle radici antropologiche su cui si fonda lo stesso individualismo, sia dai recenti tentativi in materia non andati a buon fine.
Dott. Tommaso Franchi